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- La Tarsia di Sorrento -

Le tecniche

di Alessandro Fiorentino

 

Sotto l’aspetto tecnico la tarsia sorrentina conosce nella sua lunga storia una notevole evoluzione che gradualmente ha sempre più allontanata dai canoni delle tarsie cinquecentesche lavorate a massello.

I primi lavori degli artigiani sorrentini confermano l’uso dei legni naturali, anche se ridotti ad esili impiallacciature, e sottolineano con la campitura di stucco i tratti delle figure incise con il bulino per meglio definire qualche particolare. Poche sono le occasioni in cui vengono traforati, in alternativa al legno, materiali più ricchi quali l’avorio, la tartaruga e l’ottone. Spesso è invece utilizzato il massello d’ulivo, legno fornito in abbondanza dalle campagne sorrentine, per realizzare tutta una serie di oggetti traforati a guisa di merletti. Ma il desiderio di un cromatismo più acceso e variato nelle impiallacciature associato alla ricerca di una definizione grafica dei particolari più marcata accelererà presto l’evoluzione della tecnica in senso negativo.

La tradizione assegna all‘influenza di artigiani nizzardi, presenti a Sorrento intorno al 1840, l’uso di rifinire l’intarsio, dopo essere stato traforato e placcato, ma prima della verniciatura, con tratti d’inchiostro di china per meglio definire i vari dettagli e sfumare le zone chiaroscurate. E’ il primo decisivo passo verso una produzione che vuole realizzare in tempi corti effetti e profitti maggiori, ignorando che la “ricacciatura”, è questo il tenni ne usato per sottolineare il lavoro di tratteggio con inchiostro di china, è una tecnica oltremodo precaria in quanto il tratto d’inchiostro, non realizzando un corpo unico con il legno, può facilmente cancellarsi nel tempo lasciando sul posto anonime sagome prive di ogni dettaglio.

Il successivo passo verso un totale abbandono dei canoni classici la tarsia sorrentina lo attua utilizzando i legni colorati che meglio riescono ad assecondare i temi, cromaticamente ricchi, dell‘ambiente e del costume locale.

Anche l‘introduzione all‘uso dei legni colorati è di scuola nizzarda per cui molto spesso, a causa del comune linguaggio tecnico, i prodotti intarsiati dell’artigianato transalpino sono facilmente confusi, da un occhio non esercitato, con quelli sorrentini.

In quest’ultimi all’intarsio si associano molto spesso strisce di mosaico, sommatoria di una miriade di piccolissime tessere quadrate, a memoria della “Opus Tesselatum” di epoca romana.

Anche questa tecnica trova nel panorama internazionale delle tarsie ottocentesche un riferimento molto importante nella produzione di Tunbridge Wells, un centro termale a sud di Londra.

Ma mentre il mosaico sorrentino viene essenzialmente utilizzato per bordare le varie scene o campire il fondo dei tavoli dando risalto alle parti intarsiate, la produzione della piccola cittadina inglese si caratterizza nel disegnare, senza alcuna modulazione ripetitiva, paesaggi architettonici e fioriti ramages utilizzando solo legni naturali.

Dopo un’iniziale produzione fatta a mano il mosaico, con l’arrivo delle macchine nel ciclo produttivo della tarsia sorrentina, diventa il risultato della tranciatura ortogonale di una serie di listelli di legno, assemblati tra loro nel colore e nella posizione secondo lo schema predisposto per ottenere il disegno finale. Il mondo della flora e della fauna offre gli spunti per disegnare il modulo base, che ripetitivamente comporrà la striscia di mosaico fino alla lunghezza di cm. 50 ed una larghezza variabile da 0,5 a 5 cm.

Il degrado tecnico prosegue e verso la fine dell’Ottocento lo “smalto su legno” s’integra alla produzione intarsiata caratterizzandola fortemente in senso negativo. Traforato quasi sempre in legni chiari l’intarsio si riduce, con questa nuova tecnica, alle sole sagome di contorno che si affidano al pennello ed ai colori per la definizione dei dettagli.

L'organizzazione del lavoro, rimasta immutata nell’arco dei tempi, è impostata su diversi esecutori: i disegnatori forniscono il disegno che passa all‘intarsiatore, esecutore del traforo; tutti i pezzi, traforati nelle impiallacciature dallo spessore di pochi decimi di millimetro, vengono fissati dal montatore su un supporto di carta in modo che tutto l’ornato possa essere trasferito dal placcatore, come rivestimento, sull’oggetto di cui il falegname ha predisposto la struttura. Inizia quindi il ciclo finale di decorazione affidato al ricacciatore perché completi e ritocchi nei particolari, con precisi e sottili tratti d’inchiostro di china, le varie sagome intarsiate. Il lavoro si conclude dopo l’applicazione di cerniere, serrature e tappezzeria con la verniciatura degli oggetti, realizzata una volta a mano con tampone e gomma lacca ed oggi poliestere a spruzzo.

Il mezzo tecnico utilizzato fino ai nostri giorni per traforare manualmente le impiallacciature esalta, per la sua essenzialità strutturale, il carattere artigianale di tutto il ciclo produttivo.

“La capretta”, meglio ancora conosciuta come “ ‘a scannella”, non è altro che un piccolo scanno di legno a quattro zampe che consente a chi lavora di stringere o allentare le impiallacciature da traforare in una morsa verticale fissata allo scanno ed azionata da un pedale posto alla sua base.

Seduto alla scannella l’artigiano sorrentino trafora le coppie d’impiallacciatura manovrando con movimenti ritmici e precisi il finissimo seghetto d’acciaio applicato all’archetto in legno lungo le linee del disegno precedentemente incollato sulle impiallacciature stesse. Il taglio del seghetto, realizzato a squadro in un primo momento, lasciava intravedere nella composizione dei vari pezzi traforati il distacco dovuto allo spessore del seghetto; ma la possibilità di manovrare manualmente l’archetto suggerì di adottare il traforo obliquo. Operando con una leggera inclinazione del seghetto verso il centro si produce una svasatura a rientrare tra le varie impiallacciature con il risultato di far combaciare perfettamente i vari pezzi nella composizione finale.

Per il traforo dell‘ulivo a massello, dallo spessore variabile dai 5 ai 7 mm., invece della pellicola di carta disegnata si usava riportare sul pannello la sagoma da traforare campendo con l’inchiostro i vuoti di una maschera di stagnola applicata sulla tavoletta d’ulivo e riproducente al negativo il disegno stesso.

Le impiallacciature più usate dopo l’arancio e il noce sono state tra i legni naturali l’agrifoglio, il palissandro, l’acero, il pero, la tuia oltre tutta la vasta gamma dei legni tinti.

Gli spunti per i primi intarsi sono stati offerti dalle decorazioni delle opere recuperate negli scavi della vicina Pompei e riciclate nella più diffusa cultura neoclassica dell’epoca. Le divinità pagane, incorniciate da festoni ed arabeschi o circondate da cortei festanti di amorini e baccanti furono interpretate in maniera artigianale e tradotte in piccole sagome intarsiate in legno chiaro su fondo scuro.

Ai motivi classicheggianti solo successivamente si alternarono disegni composti con scene di costume locale; le opere di Palizzi e Duclere, episodi della vita quotidiana disegnati dal Dura trovarono nell‘intarsio sorrentino una vastissima applicazione, accentuando con il loro apporto l’interesse per gli oggetti stessi. Ritengo che questa seconda fase, nella quale il costume napoletano, esaltato graficamente dai legni colorati, arricchisce con le sue varie scene il prodotto intarsiato, sia il momento più personale della tarsia sorrentina nei vasto panorama delle numerose scuole di tarsia dell’ottocento.

I disegni dell‘ornato, anche se hanno motivi ispiratori comuni, riescono a caratterizzarsi di volta in volta in modo diverso con piccole varianti di colore e composizione, permettendo tra l’altro in questo modo l’individuazione delle diverse botteghe artigiane.

Non è la sede per scendere nel dettaglio dei singoli oggetti e dei vari mobili intarsiati dagli artigiani sorrentini, è sufficiente solo sottolineare che la notevole varietà della produzione denuncia un’estrema versatilità nella progettazione dell‘oggetto stesso con una cura particolare per la soluzione dei dettagli utili a semplificare l‘assemblaggio ed il trasporto del prodotto finito. Ricordando infatti che la produzione intarsiata era ed è essenzialmente destinata all’esportazione s’intuisce come fosse importante progettare oggetti dal facile montaggio per ridurne al massimo il volume nel trasporto senza nulla togliere al valore artistico del tutto.

Si sono così sviluppati i temi più diversi: dai piccoli oggetti da scrittoio alle mensole a muro, ai tavoli ad incastro che ricordano il “Quartetto Tables” comparso nel 1803 sul Cabinet Dictionary di Thomas Sheraton, e continuando con reggilibri, vassoi, leggii fino agli scatoli a segreto si giustificano ampiamente i riconoscimenti e le medaglie che per tutto l’ottocento fino all’inizio del novecento gli artigiani sorrentini seppero conquistarsi nelle esposizioni d’arte internazionali.

Altro merito indiscusso fu quello di confrontarsi periodicamente con le altre scuole di tarsia, sempre pronti a migliorare la loro formazione professionale.

 

La tarsia di Sorrento:
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