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- La cultura del cemento -

L’espansione edilizia in Penisola Sorrentina tra legalità e abusivismo

Due facce della stessa medaglia


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L’assenza di un’adeguata pianificazione del territorio e l’abusivismo edilizio sono fenomeni che rispondono entrambi ad una mentalità che considera l’ambiente come “terra di conquista”. Forti del principio secondo il quale “ognuno è libero in casa propria”, molti italiani sono convinti che il diritto di proprietà coincida con il diritto di costruzione, per cui da un lato c’è chi crede che sia del tutto secondario chiedere una concessione e ottenerla, e poi – magari – edificare rispettando le leggi, e dall’altro c’è chi dovrebbe amministrare e controllare che invece assegna troppo spesso maggiore priorità ad altre tematiche.

Oltre che una questione ambientale, legale ed economica, la “passione per il cemento” (di cui l’abusivismo è dunque solo un aspetto) è anche un’espressione culturale, con le sue dinamiche e le sue origini, che gira intorno ad una questione ampiamente dibattuta nelle scienze sociali, quella tra “spazio pubblico” e “spazio privato”.

Le notevoli dimensioni raggiunte dall’espansione edilizia (sia dal punto di vista volumetrico che del numero dei fabbricati) rappresentano un evento molto recente: “nel secondo dopoguerra – dice Eric Hobsbawm – un solo terreno edificabile poteva trasformare un uomo comune in un miliardario”, per cui imprese di costruzioni e speculatori immobiliari non dovevano fare altro che aspettare che il valore di quel terreno salisse alle stelle.

Ciò è stato particolarmente vero per la Penisola Sorrentina che, passando da terra del mito a mito del turismo, proprio in quegli anni vide esplodere il suo mercato immobiliare: “la caccia al villino o alla seconda casa condominiale – scriveva nel 1975 Cesare De Seta – è la molla principale di quell’insensato e scriteriato costruire ovunque e comunque. […] Si è assistito in questi ultimi anni ad una vera e propria lebbra edilizia che ha corroso le pendici e le coste della penisola”.

Gli effetti devastanti dell’industria del mattone erano chiari già nei primi anni ’60, ma pochi li ammettevano e li denunciavano. Tra questi non si può non ricordare la sezione sorrentina di “Italia Nostra”, promotrice di dibattiti, convegni e studi come quello che portò, nel 1977, al “Piano Territoriale di Coordinamento e Piano Paesistico dell’Area Sorrentino-Amalfitana” (che diventò legge regionale, però, solo nel 1987).

Accanto ad una vecchia e inadeguata disciplina urbanistica, nonché a vuoti legislativi (vedi la devastante “legge-ponte” del 1967) e alla mancanza di piani regolatori, l’altro elemento che favorì la disordinata espansione edilizia che oggi abbiamo sotto gli occhi fu il groviglio di interessi privati e pubblici: come avvertì già nell’agosto 1968 Ermanno Rea, “dietro il cemento che ha invaso Sorrento non è difficile individuare molte responsabilità. Sono ben pochi, ad esempio, i sindaci e gli assessori che nei sei comuni della penisola non siano sospettati di legami con imprese edili”. Una denuncia grave e dolorosa, alla quale fece eco qualche mese più tardi un drammatico e inascoltato invito di Antonio Cederna a recuperare e rispettare il senso civico e lo spirito pubblico, ammonendo che “quella in atto nella penisola sorrentina è una politica suicida”.

In effetti, l’etica sociale è un insieme di valori e comportamenti che si degrada facilmente se le regole della comunità non trovano applicazione e tutela da parte del potere pubblico, per cui – sostiene Piero Bevilacqua – “l’urbanesimo caotico che si è sviluppato [in Italia] a partire dal secondo dopoguerra […] ha fondato una delle forme più gravi di deterioramento delle regole collettive su cui si fonda una comunità: la manomissione violenta e privatistica di quel bene pubblico per eccellenza che è il territorio”.

Vedi anche:

La cultura del cementoLe ferite della Penisola Sorrentina