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- Antichi sapori e profumi della Penisola Sorrentina -

I prodotti del "Nuovo Mondo" accendono la fantasia delle massaie sorrentine

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Pomodori (Foto Giuseppe Ruggiero)

Può indubbiamente essere considerato quasi un luogo comune storico sottolineare quanto la scoperta dell’America abbia influenzato la politica e la cultura delle epoche successive.

Ma in concreto ci siamo mai chiesti nel momento stesso in cui Cristoforo Colombo riapprodò in Spagna, cosa colpì di più il gusto e la fantasia della corte che lo accolse? Le cronache di solito amano soffermarsi sulla magnificenza degli ori e sull’originalità dei volatili riportati dalla spedizione ma grande curiosità dovettero sicuramente suscitare anche gli stravaganti tipi di piante destinate a fornire colori e profumi nuovi alla già ricca gastronomia europea. Credo che tre dovettero essere i prodotti a raccogliere i consensi: i pomodori lucidi e dorati, il fulvo mais e le patate, questi strani tuberi che nessuno immaginava sarebbero potuti divenire di uso così comune sulle nostre tavole.

E proprio queste tre novità furono quelle che meglio s’integrarono alla già fantasiosa gastronomia campana.

Se la gastronomia ha avuto come suo parametro quasi sempre il gusto non posso sottrarmi alla considerazione che al cambiamento di sapori corrispose un netto cambiamento dei colori così la gastronomia campana quasi sempre distinta dai tenui colori pastello, si macchia di pirotecniche esplosioni di giallo e rosso vivo.

Ed allora, quasi per incanto, la farina che confeziona i "ndunderi" assorbe la purea di patate prelessate. al posto del latino latte cagliato, dando origine agli gnocchi che a secondo del tipo di farina usata o del condimento sono diventati piatto tipico di diverse regioni d’Italia.

Così in breve è scomparso dal vocabolario napoletano la denominazione originaria. La patata incontra e si accoppia con l’incontrastato protagonista della cucina campana: il maccherone, realizzando bocconcini profumati e saporosi come quelli provenienti dagli sformati cotti al forno, realizzati interponendo ad uno strato di fettine di patate condite con aglio, olio, origano, basilico uno di fette di pomodoro con l’aggiunta di qualche tenera cotenna e qualche pezzo di carne grassa di maiale ed uno di maccheroni lunghi e tondi posti a crudo e poi ricoperti completamente da brodo di verdure. Il piatto servito caldo va ricoperto con abbondante formaggio di vacca grattugiato.

Inoltre la patata che intorno ai primi del XVIII secolo si riteneva "accrescesse il seme e provocasse il desiderio, causando fecondità in entrambi i sessi", raggiunse il massimo della sua notorietà attraverso la creazione di sformati oggi chiamati "soufflé" e che i vecchi campani battezzarono con il nome francese di "gateau".

Ancora la patata si trasforma in crocchetta quando all’impasto di purea si aggiungono le uova necessarie a rendere l’impasto piuttosto consistente, sale ed un pizzico di pepe, a parte vi sono i pezzi di mozzarella tagliati per lungo che costituiscono il crocchè. Poi all’impasto si da una forma rotonda o allungata di piccole proporzioni, si passa nella farina e poi nell’uovo e si tuffa nell’olio bollente.

Si trascrivono sul menù con il nome più laziale di "crocchè" se avranno forma rotonda e di "panzerotti di patate" se di forma allungata.

Anche il mais accese la fantasia dei campani che inizialmente lo mangiarono, come tutti, allo stato naturale, semplicemente lessato o arrostito. Però, non appena ricavarono dai chicchi la bionda farina, la battezzarono "papocchia" e la utilizzarono sia come minestra che come componente di altri piatti, facendola entrare nella nostra cucina per la preparazione generalmente di piatti invernali, smentendo la diceria che sono solo i settentrionali a consumare polenta.

Tra le più importanti pietanze di polenta pensate e consumate dai campani sono da ricordare: gli "scagliozzi" piccoli rombi realizzati con la polenta cotta in acqua bollente, salata e fatta raffreddare sul tagliere, fritti in olio bollente tino a lieve doratura.

Gli scagliozzi venivano offerti dagli zeppalaioli (venditori ambulanti di fritture) molto caldi e con l’aggiunta di sale e pepe che versavano dal corno forato; il "casatiello di papocchia" o "pane di S. Lucia" perché consumato nel giorno della ricorrenza della Santa per assolvere al fioretto di non mangiare pane.

Questo tipico dolcino, della grandezza di una comune rosetta ma di forma allungata a mo’ di pagnottella, ripieno di uva passa e gherigli di noci o pinoli, ormai scomparso, si vendeva d’inverno nelle vicinanze delle scuole fino ai primi anni del dopoguerra, conservato caldo in ceste ben coperte da tele di sacco.

I fortunati ragazzi che possedevano due lire potevano assaporare questa delizia accorrendo alla voce del venditore: "càvere, càvere ‘u casatiello, chine e passe e fenucchiello".

Vale qui la pena di ricordare il migliaccio di polenta con i cigoli che compariva sulle tavole nel periodo di carnevale o in occasione della festa per l’uccisione del maiale nelle famiglie contadine. I cigoli sono i residui dei pani di sugna spenti per ebollizione e che nel nostro dialetto sono denominati "sfrittoli" o anche "ciccioli". Per confezionare questo tipo di migliaccio si fa bollire nella pentola di rame l’acqua occorrente con sale, pepe e sugna e vi si versa lentamente la farina di granturco. Quando la polenta è densa e cotta si aggiungono i cigoli. Nella teglia da forno ben unta e spolverizzata di pane grattugiato si dispone uno strato di polenta e, al di sopra, si pone mozzarella e uova sode affettate, pezzi di salsiccia secca e si ricopre con un secondo strato di polenta. Se, agli ingredienti elencati, e nello strato intermedio, si aggiunge un sugo di pomodoro si ha il migliaccio rosso. Così preparati i migliacci vengono messi al forno e lasciati fino alla formazione di una dorata e piacevole crosta.

Siamo alla fine della nostra discussione e, come nel finale di ogni grande spettacolo pirotecnico l’artista si riserva i colpi più importanti, quelli che coprono il cielo azzurro con una miriade di stelline colorate, così noi in questa carrellata attraverso i secoli alla ricerca dei cibi che hanno costituito tradizione gastronomica per la nostra regione siamo giunti al XVI secolo per presentare, arrivato dal Messico e dal Perù, poco più grande di una bacca, il protagonista di una grande rivoluzione gastronomica: il pomodoro.

L’incontro storico del pomodoro con la cucina campana avvenne nel XVII secolo quando cioè la solanacea, trapiantata nelle nostre terre, acquisì le ben note forme di lampadine allungate (S. Marzano) a cuore o tonde, alimentando la creatività delle solite massaie a trasformare pietanze modeste in cibi prelibati.

La maggior parte delle pietanze della tradizione si tingono di rosso, come parmigiane di melanzane, soffritto, pasta e fagioli.

Una delle tante 'varianti' della Pizza.La pizza diventa la più importante e le più ricercate delle tavolozze per completezza di sapore e colore dati dall’aggiunta del pomodoro, mentre diventano rosei gli spaghetti alle vongole ad opera del "pomodorino del pendolo" e rinomate le insalate alle quali si aggiungano le fette carnose di pomodori tondi dando loro un aspetto più allegro. I pomodori inoltre serviti intramezzati da morbide fette di mozzarella e profumate con basilico, origano e aglietto ricordano le assolate giornate dell’estate caprese.

E’ in questo periodo che si festeggiano nella cucina partenopea le felici nozze di pomodoro e maccherone. Il primo, passato, viene versato nel tegame di coccio dove incontra la cipolla già soffritta in strutto, olio di oliva e bagnato con vino rosso di Gragnano, nonché due belle polpe di "cularde" di manzo e di maiale che si lasciano sopraffare fino a rendersi tenerissime per lento bollore in compagnia di basilico fresco e qualche volta anche di pinoli ed uva passa.

Il signor ragù è finalmente pronto ad incontrare il maccherone che, come ogni sposa che si rispetti, indosserà un bianco velo questa volta non di pizzo ma di piccante pecorino o di parmigiano.

Ziti spezzati al ragù con braciola di vitello e caciotta (Fotografia e realizzazione del piatto a cura di Enrico Cosentino presso il Ristorante Massa di Caserta). Il sublime odore che emana questa ricca, pingue e morbida salsa, mentre al tenue calore dei carboni accesi si raddensa, percorre strade e vicoli delle nostre città e campagne nelle domeniche invernali.

All’operazione di cottura presiede il membro più anziano della famiglia dalla certosina pazienza che deve attendere ore affinché la carne ceda al sugo la sua fragranza, distratto unicamente dal mormorio provocato dall’ebollizione dello stesso nel coccio.

E’ ora di mettersi a tavola con un largo tovagliolo di lino bianco con la punta conficcata nel collo della camicia per godersi questo ragù rosso, fumante, versato sui grossi "schiaffoni" o sui più delicati "perciatelli" o sui più consistenti "strozzapreti".

Il nostro ragù rimane re anche oltre i confini della propria regione non solo perché esso riesce a mantenere distinti i sapori naturali ed esalta freschezza e genuinità, ma soprattutto perché esso come tutta la culinaria campana che abbiamo raccontato è nata dall’amore di coloro che l’hanno inventata e preparata per coloro che l’apprezzano.

Sorrento ha senz'altro il dovere di tramandare la propria cultura culinaria. Essa costituisce un capitolo di storia importante. Così ristoratori, cuochi e pasticcieri devono necessariamente assumere il ruolo di difensori di questo messaggio di civiltà e di cultura per il quale René Chathaubriand ha potuto affermare: "A me non interessa conoscere la data esatta in cui si svolse una battaglia, né tanto meno l’anno in cui mori un sovrano; interessa invece conoscere quanto costava il pepe ad Amsterdam nel 1600".