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La trasformazione della città nel cuore dell’Ottocento

L'arrivo del Milord

di Giovanni Gugg

Per secoli gli abitanti della Penisola Sorrentina hanno condotto una vita da “isolani”. Unica via di comunicazione con il continente era, appunto, il mare o un impervio e pericoloso sentiero montano attraverso il massiccio del Faito. A partire dal 1839, però, il rapporto tra la comunità sorrentina e il proprio territorio mutò profondamente: quell’anno, infatti, venne completato il tracciato della prima strada carrozzabile d’accesso alla Penisola, voluta da Ferdinando di Borbone sette anni prima.

L’apertura della strada “Sorrentina” senza dubbio comportò un miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita degli abitanti locali, tuttavia, già prima che cominciassero i lavori per la sua realizzazione, la semplice idea di una strada di collegamento rotabile sollevò pareri profondamente avversi, soprattutto da parte dell’alta borghesia locale e dei viaggiatori stranieri, come André Vieusseux che durante il suo soggiorno del 1818 annotò: «Si sente dire […] che vogliono aprire una strada da Castellammare a Sorrento: per quest’ultima sarebbe una sciagura! I napoletani vi si riverserebbero coi loro corricoli, trascinandosi appresso lussi e vizi che li distinguono ed infettandone i pacifici abitanti; non solo, ma si determinerebbe un rialzo nei prezzi del necessario, che qui è assolutamente ragionevole». (*)

Bisogna stare in guardia da chi teorizza “impatti fatali”: l’incontro tra culture e comunità diverse, infatti, quasi mai si realizza nella cancellazione di una di loro, ma più spesso comporta un reciproco rimescolamento. E questo, in breve, è quanto accaduto tra gli abitanti della Penisola e i loro vicini napoletani. Piuttosto, l’incontro dall’impatto più profondo sulla cultura locale, dunque anche sul paesaggio, è stato proprio quello tra l’élite mitteleuropea impegnata nel “voyage pittoresque en Italie” e, appunto, la comunità sorrentina.

In ogni viaggio degno di nota Sorrento era tappa obbligata, e da quando poté godere di un accesso più facile, crebbe anche il numero dei suoi visitatori. Questi viaggiatori, però, solo all’arrivo scoprivano di aver raggiunto un luogo “ambiguo”: da una parte, infatti, si lasciavano incantare da miti, nostalgie e utopie che lì si fondevano in un tutt’uno straordinario, dall’altra, invece, erano testimoni di un antico e grave livello di povertà.

Nella sua guida turistica del 1857 Carlo Merlo tentò di ammorbidire le proporzioni di un fenomeno di cui comunque non poteva tacerne l’esistenza: «Vi è una classe di gente miserabile, ma l’apparenza la fa credere più numerosa che nella realtà, per l’abitudine che hanno sin dalla più tenera età di chieder sempre l’elemosina ai forestieri. Io ho visto delle donnicciuole ben nudrite, che mentre mangiavano nella strada ed aveano sotto il braccio un pane, mi chiedeano un grano, ed ho anche visto dei ragazzi di vegeto aspetto, di cinque a sei anni, che mentre giocavano tra loro, sospendeano i loro giuochi per chiedermi qualche cosa». (**)

E testimonianze dello stesso tipo, soprattutto con bambini mendicanti, se ne hanno ancora almeno fino ai primi del Novecento.

Una popolazione che viveva in simili condizioni, dunque, non è difficile credere che finisse per “mitizzare” il viaggiatore straniero, che lo “idealizzasse”, e ogni visitatore, dunque, diventava il “milord”, cioè un personaggio così rilevante per l’immaginario popolare ottocentesco che in numerose fiabe dell’Italia Meridionale addirittura sostituì i vecchi protagonisti, cioè i principi e i cavalieri.

In questo modo il modello di vita locale entrò in crisi subendo una sorta di autosvalutazione in base ad una logica clientelistica di superiorità dello straniero secondo cui bisogna adattare il luogo e la propria mentalità alle abitudini degli ospiti, piuttosto che puntare sulle ragioni differenzianti della propria storia (dunque qualcosa di molto simile a quel che accade oggi nei paradisi esotici del turismo internazionale). Ciò portò al fatto che qualsiasi monumento o reperto non risalente all’epoca classica veniva lasciato a se stesso, abbandonato e prima o poi addirittura sacrificato in nome di una supposta gradevolezza estetica da dare alla città.

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(*) A. Vieusseux, Italy and the Italians in the nineteenth century: a view of civil, political, and moral state of that country; with a sketch of the history of Italy under the French; and a treatise on modern Italian literature. In two volumes. I (1a ed. inglese 1821), Printed for Charles Knight, London 1824, pp. 133-137.

(**) C. Merlo, Guida della città di Sorrento (1a ed. 1857), Tip. Gutemberg ’72, Sorrento 1978, p. 18.

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