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- Il Territorio / Antropologia -

La toponomastica non è un'opinione

Gli alberi d’arancio sorrentini tra valore storico e valore simbolico


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Negli strati più profondi del pensiero e del sentimento mitico la parola è energia sostanziale, una forza viva ed attiva che dà all’uomo un reale potere sulle cose.

Nel suo celebre “Cristo si è fermato a Eboli”, Carlo Levi scrisse che nei paesi della Lucania “i nomi significano qualcosa: c’è in loro un potere magico: una parola non è mai una convenzione o un fiato di vento, ma una realtà, una cosa che agisce”. La parola, dunque, è “potente”, e la sua forza è tale che sul piano religioso diventa addirittura strumento della creazione.

Seguendo lo stesso principio, l’attività di nominazione permette all’uomo di ricondurre l’ignoto al noto, cioè di mettere ordine nella natura: “dare un nome significa organizzare il mondo”, sostiene il linguista Gian Luigi Beccaria, e “sapere come si chiamano le cose significa dominare la realtà”.

La toponomastica, dunque, può parimenti essere considerata come l’espressione del potere dell’uomo sul territorio, come è evidente in ogni conflitto bellico in cui la forza occupante rinomina i luoghi conquistati: la strada dell’aeroporto di Baghdad, ad esempio, è chiamata “Route Irish” dal Pentagono e dalle truppe statunitensi, mentre fino a due anni fa il suo nome era “Matar Sadam Al-Duwali”.

Quel che interessa qui, tuttavia, è soprattutto la toponomastica popolare, quella che basandosi su lontane esperienze e credenze rappresenta il segno di una conoscenza minuziosa dei luoghi messa a punto da un certo gruppo umano nel tempo, quindi una vera e propria forma linguistica attraverso la quale i nostri avi continuano a comunicare con noi, un modo per tramandare ciò che una comunità e, in particolare, i suoi leaders d’opinione ritengono degno di essere ricordato: un personaggio, un evento, un simbolo. “Se occorresse fare l’esegesi di tutti i nomi di strada di una metropoli come Parigi”, dice Marc Augé, “è tutta la storia di Francia che occorrerebbe riscrivere, da Vercingetorige a de Gaulle”.

A Sorrento c’è una strada, via degli Aranci, il cui toponimo evoca un momento importante della storia cittadina e un paesaggio agrario che l’ha resa celebre ovunque.

PagliarellaA metà del XIX secolo l’agrumicoltura divenne una produzione importante per l’economia locale: come testimonia Riccardo Filangieri di Candida, “sulle piantagioni, a proteggerle dai geli dell'inverno, furon costruiti dei telai [ove] si adagiano delle coperture fatte di paglia”. L’introduzione di tale tecnologia incrementò enormemente il raccolto, al punto che “nel 1855 si caricavano i primi bastimenti a vela per il continente nuovo”. I racconti di viaggio degli intellettuali e degli artisti ottocenteschi, inoltre, sono pieni di riferimenti al profumo di agrumi: lo stesso “inno” della città – una delle melodie più conosciute al mondo: “Torna a Surriento”(*) – ancor oggi ne celebra quella passata magnificenza: “Siente, siè ‘sti sciure ‘e arance: nu prufumo accussì fino… dint’‘o core se ne va”.

Ma ancora nel 1954 era possibile osservare quanto segue: “le strade di Sorrento sono straordinariamente belle… Un profumo di muschio impregna le nostre narici: proviene dagli aranceti che sono tanto numerosi in questa regione”(**).

In meno di mezzo secolo, però, il mutamento socio-economico e culturale-paesaggistico è stato tale che quella Sorrento è ormai rintracciabile solo nelle cartoline d’epoca.

L’espansione edilizia subita dalla città è stata imponente, e proprio via degli Aranci ne rappresenta il segno più forte e, in qualche misura, anche il più malinconico: nonostante non ci sia più alcun agrumeto o giardino, quel toponimo continua ad evocarli. Il rischio è che lo stravolgimento della vecchia grammatica spaziale della città oggi renda indecifrabile il testo-territorio, retrocedendolo ad uno stato di oggetto povero di senso.

Il valore storico di quel toponimo si intreccia con il valore simbolico dell’albero, il quale a seconda delle culture rappresenta “saggezza” (nei villaggi dell’Africa subsahariana il baobab è l’Albero della Parola, il luogo intorno al quale gli anziani discutono e prendono decisioni), oppure indica “abbondanza” (l’Albero della Cuccagna in Europa durante i periodi di austerità come la Quaresima), altre volte è segno di “protezione” (secondo un proverbio indiano gli alberi non vanno tagliati perché sono le colonne del cielo), spesso rappresenta anche “giustizia” (ne sono triste conferma il martirio di personaggi come Chico Mendez, ucciso nel 1988, e suor Dotothy Stang, assassinata nel febbraio 2005, per difendere i diritti dei popoli della foresta amazzonica minacciati dall’avanzata delle imprese del legname), e talvolta è addirittura simbolo di “pace” (nel dicembre 2004 è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace a Wangari Muta Maathai, viceministro dell’ambiente kenyota e prima donna africana a ricevere tale riconoscimento, che in trent’anni tramite il suo “Green Belt Movement” e il progetto “Tree is Life” è riuscita ad impedire conflitti armati e a salvaguardare l’ambiente: “è importante mantenere integre le foreste tradizionali”, ha dichiarato, “il disboscamento minaccerebbe non solo il sistema ecologico, ma anche la sopravvivenza di molti popoli” (***) ).

Oggi, purtroppo, i rari alberi d’arancio ancora presenti lungo quella strada sorrentina versano in condizioni precarie e meriterebbero maggiori cure e attenzioni. Se, infatti, ha ancora un senso ripetere la massima di Giustiniano “nomina sunt consequentia rerum”, allora il valore degli aranci di via degli Aranci dovrebbe essere riscoperto al più presto, quanto meno per mantenere un filo di coerenza con le celebri, anche se un po’ oleografiche, immagini della sua canzone più famosa.

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Note:

(*) La canzone (scritta da Giambattista de Curtis e musicata dal fratello Ernesto) fu eseguita per la prima volta il 15 settembre 1902 all’Imperial Hotel Tramontano in occasione della visita del Presidente del Consiglio dei Ministri, on. Giuseppe Zanardelli
(**) Lale A. Oralogiu, cit. in A. Cuomo (a cura di)
(***) V. Manzetti, “Il nobel "rosa" di Wangar Maathai”

 


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
• M. Augé, “Nonluoghi”, Elèuthera, Milano 1993
• G. L. Beccaria, “I nomi del mondo”, (Iª ed. 1995), Einaudi, Torino 2000
• A. Cuomo (a cura di), “Sorrento, pagine belle”, De Luca, Salerno 1987
• R. Filangieri di Candida, “Storia di Massa Lubrense” (Iª ed. 1911), Arte Tipografica SaS, Napoli 1991
• C. Levi, “Cristo si è fermato a Eboli” (Iª ed. 1945), Einaudi, Torino 1999
• V. Manzetti, “Il nobel "rosa" di Wangar Maathai”, in “Scienza e Pace”, rivista del Cisp – Università di Pisa, n. 1, 27 giugno 2005