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- La cultura del cemento -

L’espansione edilizia in Penisola Sorrentina tra legalità e abusivismo

Le ferite della Penisola Sorrentina

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Fortunatamente la morte di Sorrento e del suo territorio non è (ancora) avvenuta, tuttavia le ferite che ha subito (e continua a subire) sono molte e profonde: intrusione di blocchi edilizi fuori scala, colata di edifici fin sul mare e conseguente privatizzazione della costa, colmatura dei valloni scavati nel tufo, proliferazione di parcheggi multipiano al posto degli ultimi agrumeti, cancellazione della stratificazione storica, mutamento della viabilità da pedonale a carrabile, e così via.

I veri incentivi a questa cultura del cemento che ha portato a considerare la costruzione abusiva come un illecito veniale (come “sfoggio di virtù da individualismo rampante”, dice Francesco Erbani) sono, però, una legislazione poco (o fintamente) lungimirante, la facile concessione di licenze, l’assenza di repressione e il ciclico ritorno dei condoni governativi.

Fra gli anni ’50 e ’70 la violazione edilizia rispondeva, in particolare al Sud, soprattutto ad un bisogno primario e ad una cultura dell’autocostruzione e del “fai da te” che “se una volta non poneva grandi problemi per le piccole dimensioni delle trasformazioni indotte e per la sua quasi naturale capacità di autocontrollo, oggi diventa devastante proprio per la nuova complessità delle questioni coinvolte o per le più estese dimensioni di intervento consentite dalle attuali tecnologie” (Mauro Boriani). Ai nostri giorni la casa è diventata un indice di valore sociale, per cui “gli individui e la famiglia vengono classificati in base alla casa in cui vivono” (Bariceño-Léon), infatti le caratteristiche dell’abusivismo sono cambiate profondamente negli ultimi 25 anni: non più la casetta precaria, ma la villetta indipendente a più piani (ad uso vacanziero), e non più ai margini dei centri urbani, ma sulla costa, tra gli alberi d’olivo e di limone.

Si è assistito ad un vero e proprio assalto alla Penisola che ha avuto almeno tre gravi ripercussioni, ognuna con ulteriori effetti a catena: disordine sul territorio, dissesto idrogeologico e omologazione del paesaggio. Quest’ultimo punto, quello più strettamente culturale, è esemplificabile attraverso due casi purtroppo molto diffusi: la trasformazione dei sentieri in strade asfaltate e la cancellazione delle testimonianze storico-architettoniche preesistenti.

Quando si ricopre di cemento un sentiero, questo perde le sue caratteristiche originarie e ne acquista altre: svanisce la sua capacità di trasmettere modi “diversi” (tradizionali e liberi) di vivere il territorio e si manifesta la nuova funzione di veicolo e strumento di trasporto da un punto all’altro. “L’asfalto – scrive Franco de Battaglia – cancella tutte le esperienze che sulla strada si sono stratificate e consente una sola funzione, quella di arrivare in fretta, e magari senza polvere, al punto di arrivo”. In questo modo l’ambiente rurale diventa prigioniero della dimensione urbana (*) che, non appartenendole, lo impoverisce: “ci si trova impediti a sfruttare tutte le proprie potenzialità di vita, tutta la dimensione psicologica, di tempo, di relazioni, di colloqui – e perché no, anche di bellezza – che il sentiero offre”.

L’opera di appiattimento dell’ambiente, poi, assume dei tratti irreversibili quando va ad intaccare la sedimentazione storico-culturale espressa dal paesaggio. Sostituire un tetto a volta in lapillo battuto con uno a doppio spiovente in tegole rosse, oppure trasformare un muretto a secco in uno di cemento armato, o – ancora – intonacare un’abitazione costruita con mattoni di tufo sono solo alcuni esempi delle frequenti manomissioni che rendono illeggibili queste strutture e che rischiano di banalizzare un territorio tra i più apprezzati al mondo.

Nel 1936 Roberto Pane scriveva: la casa rurale “prima che graziosa, noi la sentiamo seria, di quella serietà che fatalmente accompagna l’opera di una povertà laboriosa”. I valori storici, artistici, culturali, identitari sono inscritti in quelle strutture che pertanto – sia in ambiente rurale che nel centro storico cittadino – testimoniano le scelte sofferte ma umilmente colte dei nostri avi, e che oggi possono giocare un ruolo prezioso nelle nostre scelte future in direzione di un uso del territorio (abitativo, turistico e lavorativo) più rispettoso e consapevole.


Note:
(*) « Le strade – sosteneva Antonio Cederna – ad altro non servono che a favorire l’indiscriminata proliferazione edilizia».


Vedi anche:

La cultura del cementoDue facce della stessa medaglia

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

• R. Bariceño-Léon, “Le case autocostruite. Tecnologie, simboli e fiducia in se stessi”, in A. Signorelli (a cura di), “Antropologia Urbana”, numero monografico di «La Ricerca Folklorica», n. 20, 1989
• P. Bevilacqua, “L’altra modernità del Sud”, in M. Alcaro, “Sull’identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea”, Bollati Boringhieri, Torino 1999
• M. Boriani, “Il paesaggio “storico”: alcune questioni di tutela, manutenzione e uso”, in AA.VV., Conferenza Nazionale per il Paesaggio. Atti e Lavori Preparatori, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Gangemi, Roma 2001
• A. Cederna, “Suicidio della Penisola Sorrentina”, in «Corriere della Sera», 28 dicembre 1968
• A. De Angelis, “Il dissesto idrogeologico e ambientale del territorio sorrentino”, in «La Terra delle Sirene», n. 14, 1997
• F. de Battaglia, “Quando una strada cancella un sentiero”, in «Il paesaggio Trentino», Sezione Trentina di Italia Nostra, 1992
• C. De Seta, “Il sacco della Penisola Sorrentina”, in Id., “Città, territorio e Mezzogiorno in Italia”, Einaudi, Torino 1977
• F. Erbani, “L’Italia maltrattata”, Laterza, Roma-Bari 2003
• E. Hobsbawm, “Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi” (Iª ed. inglese, 1994), Rizzoli, Milano 1996
• R. Pane, “Architettura rurale campana”, Rinascimento del libro, Firenze 1936
• E. Rea, “Le mani su Sorrento”, in «Panorama», anno VI, n. 122, 15 agosto 1968