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- Antichi sapori e profumi della Penisola Sorrentina -

Le abitudini alimentari romane nella tradizione culinaria sorrentina

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Successivamente il golfo di Napoli si popola sempre più di romani che affollano le bellissime città di Pompei, Ercolano, Cuma, Baia, Amalfi, Sorrento e danno origine alla tradizione gastronomica della regione. Questa, tramandata per via orale da vecchi abitanti dei luoghi, trova rispondenza nella pratica alimentare moderna e prova scientifica fra le ricette trascritte soprattutto da Apicio nel De Re Coquinaria come la salsa all’aceto (scapece), da Orazio nella prima satira con la descrizione del suo ritorno a casa per consumare un ... "porri et ciceris laganique catinum" cioè, "una scodella di porri, ceci e lagane".

La scarsezza di informazioni adeguate ad una esatta ricostruzione degli usi e costumi è comune a tutte le località della regione Campania fino al periodo in cui si diffuse, tra i ceti elevati romani, l’abitudine di scegliere alcune isole e le coste campane come luoghi di villeggiatura. Il segno evidente di questa moda sono le ville romane della costiera amalfitana, di Capri, di Sorrento.

E’ molto probabile che i primi patrizi romani arrivati per la via montana si accorsero ben presto di avere scoperto il paradiso terrestre per la stupenda vegetazione che ivi esisteva, per la grande abbondanza di acqua che scorreva, per la vicinanza al mare dal quale potevano trarre sostentamento, per la grande abbondanza di pascoli e per la esistenza di una razza bovina con una eccezionale produzione di latte per cui denominarono i monti della zona "Lattari".

Decisi a rimanere in questi luoghi si diedero un gran da fare a rendere coltivabili le terre per la gran parte rocciose impiantando una fiorente agricoltura di quei prodotti della terra di cui avevano esperienza di coltivazione.

Siamo portati quindi ad affermare che questi patrizi o altri cittadini romani insediatisi nelle località della penisola sorrentina e amalfitana sono stati i primi artefici della gastronomia regionale.

E’ noto che i romani coltivavano il farro, che liberavano dalle loppe facendole bruciare su grandi pietre arroventate, il frumento, la fava, il fagiolo, i ceci, l’erba medica ed inoltre gli ortaggi come zucche, cipolle, agli, tutti prodotti che per centinaia di anni hanno alimentato le popolazioni della nostra regione.

Tali prodotti sono giunti fino ai nostri tempi nelle loro combinazioni migliori, come la minestra di farro con cicerchie, legume quasi completamente scomparso o usato nell’alimentazione animale, ed in alcuni menu ricercati di qualche albergo sofisticato anche della vicina isola di Capri, unita a fagioli e condita con il lardo o più raffinatamente con gli insaccati prodotti con le carni sanguinolenti e le parti povere del maiale, come "noglie" e "pezzente", le fave fresche, coltivate a Baia e Capri, fritte nel lardo oggi con la pancetta; le zucche fritte e condite con aglio, olio, aceto e menta ( la scapece); grande attenzione misero nella coltura dei frutteti dove venivano particolarmente curati gli alberi di mele, pere, susine ei fichi.

Fra le mele erano presenti le cotogne e le tubiole o tubione, le prime quasi completamente scomparse in tutta la regione mentre delle seconde resistono alcuni esemplari nelle zone di Gragnano, Agerola, Scala e Tramonti dove sono ricercatissime da buongustai e tradizionalisti che amano consumarle, secondo la vecchia maniera romana, fritte a tondelli in olio bollente con una pastella di farina ed uovo e spolverate di zucchero e cannella.

Si ricordano ancora le profumatissime mele "alappie", la cui buccia si lasciava bruciare nel fuoco o nella cenere del braciere per profumare la casa o si metteva a seccare tra la biancheria del bucato, ed i saporitissimi bianchini o fichi bianchi di cui resiste una pregevolissima varietà nella penisola sorrentina e amalfitana ed è conosciuta con il nome di "fichi vottati" (da optare).

Fino ai primi anni del secolo erano delizia di numerosi napoletani che durante la festa della Madonna di mezzo agosto si recavano alla marina di Cassano, dove i "vottati" affluivano dall’immediato retroterra e ne portavano via ceste colme ed abbellite dalle grandi foglie dello stesso albero, mentre i contadini, trasformatosi per l’occasione in venditori ambulanti, offrivano il loro prodotto pregiato alla voce di: "E’ doce come 'a ricotta 'sta fica vottata, magnate, magnate vedove e maritate".

Non possiamo a questo punto evitare di segnalare i noceti sorrentini impiantati probabilmente dai Greci che, secondo la leggenda, considerano la noce propiziatrice di amori felici, facendo risalire la sua origine al dio Dioniso che disperato per la morte della sua amante Caria, principessa dei Laconi, la trasformò in noce per non separarsene mai.

I romani perpetuarono questa leggenda riconoscendo a questo frutto non solo il potere di propiziatrice di amori felici, ma anche di favorire ottimi guadagni considerandolo un portafortuna da non far mancare sulle tavole delle feste ed in particolare in occasione delle nozze. "Pane e noce mangiare da sposa" dice un noto ed antico proverbio, derivato forse dalla consuetudine degli antichi romani: gli sposi, proprio per questo regalavano noci al posto degli attuali confetti.

Non è difficile capire l’origine di tale consuetudine ricca com’è di proteine, lipidi, zuccheri, vitamine e minerali, la noce risulta alimento particolarmente energetico, cibo benefico e benedetto specialmente per gli abitanti di zone ricche di boschi come l’incantevole penisola sorrentina. E qui nella penisola sorrentina e amalfitana si poteva gustare la più blasonata delle torte di noci al miele che non mancava sulla tavola delle feste di fine d’anno. Ogni grande pranzo si concludeva con il nocino il nobile infuso ricavato dal mallo staccato dall’albero durante la notte di S. Giovanni.

Fino al secolo scorso, in molte regioni d’italia, si usava piantare un noce per la nascita di una bambina che, arrivata all’età da marito, avrebbe ricavato dal legno il letto nuziale mentre i frutti fino a quel momento sarebbero serviti per l’alimentazione della famiglia.

I romani misero grande cura pure nell’impianto di vigne che disponevano a filari uniti ad altri alberi.

Delle qualità di viti impiegate ritengo che due perlomeno siano arrivate fino a noi, una è denominata "S. Nicola" e produce un vino dal gusto amabile e dal bouquet delicatissimo. Essa non è presente per quante ricerche, anche a livello personale, siano state effettuate, in nessuna delle altre regioni vitinicole italiane, ma è riscontrabile esclusivamente nel territorio della penisola amalfitana e sorrentina. Le numerose citazioni del vino di Sorrento nei passi dei vari autori latini che attestano la diffusione del prodotto, noto come vino secco e forte, si riferiscono probabilmente a questo che, secondo alcuni storici, era parificato al più famoso "Falerno".

Tale produzione stimolò alcune iniziative artigianali come quella della fabbricazione delle anfore ricordate da Marziale e da Plinio. Dovette avere un ampio mercato se il vino sorrentino lo troviamo ancora enumerato nel basso impero nel calmiere di Diocleziano.

Inoltre Plinio non lascia alcun dubbio sull’esistenza di una qualità di vino sorrentino dolce, accreditando la tradizione della vinificazione alla sorrentina ancora oggi esistente tra i vinificatori della regione e cioè di separare il vino dalle vinacce dopo una giornata o massimo due giornate, operazione che imprime al vino una venatura dolce.

Uva 'Cornicella'L’altra uva viene denominata "cornicella" e presenta acini grossi e fortemente ovali, duri e forniti di una buccia sottilissima, impossibile a distaccare dalla polpa e dal gusto eccezionale.

Questi esemplari di viti sono in via di estinzione perché i pochi contadini rimasti nei luoghi di origine, preferiscono impiantare o sostituire le nuove vigne con il sistema delle barbatelle già innestate che danno il frutto in tempi brevi e di qualità superiore ai "maglioni" innestati con il tralcio di "S. Nicola" o "cornicella".

Così dopo millenni stiamo assistendo ad una rapida trasformazione delle colture i cui prodotti hanno costituito la tradizione gastronomica della regione.

Siamo purtroppo certi che già i nostri figli non godranno del privilegio di gustare i vini ottenuti dalle miscellanee di uve: S. Nicola, Sorrento, Biancazita, Biancolella, Vacca, Pepe, Ianestella perché già oggi alcune delle viti nominate sono quasi completamente scomparse (come d’altronde numerose qualità di frutta - vedi le sorrentine prunecerase).

Largamente usati erano i prodotti derivanti dal latte. I formaggi erano usati sia freschi che stagionati mentre il burro, che pure producevano, veniva utilizzato come unguento per uso curativo.

Nella Campania e nella penisola sorrentina in particolare, continua questa tradizione iniziata dai suoi antichi abitatori producendo le mozzarelle più rinomate d’Italia che voi tutti conoscete preparate in carrozza (fritte tra due fette di pane indorate con uova); il provolone, la provola affumicata, il caciocavallo a pasta morbida e dura che può essere usato in sostituzione del più rinomato parmigiano.

Poi, sapienti mani sorrentine inventarono la treccia la cui arte millenaria è fortunatamente ancora oggi tramandata di padre in figlio, per cui la treccia resta il prodotto più emblematico della nostra regione.

Le carni usate erano quelle che ancora oggi di solito consumiamo con particolare predilezione, quelle di vitella, di cinghiale e di maiale delle quali conoscevano perfettamente le tecniche per la conservazione, e quella dei gallinacei dei quali usavano anche le uova.

Anche in questa direzione la regione rispetta la tradizione continuando ad allevare per secoli la "mongana sorrentina" una particolare vitella da latte ora considerata animale storico perché estinto, da quanto affermano i veterinari della zona. Questa forniva carne: "la quale si strugge in bocca con maggior diletto, che non fa il zucchero. Et che meraviglia è se c’è di si grato sapore, poi che non si cibano gli armenti d’altro che di serpillo, nepitella, rosmarino, spico, maggiorana, citronella, menta ed altre simili erbe?".

Anche i maiali sorrentini fornivano carni particolarmente saporite e prelibate, tanto da distinguersi da quelli allevati a Salerno le cui carni invece erano "dure, asciutte e piuttosto stecchite".

Vi è pure l’agnello pasquale che evoca tecniche di cotture antiche e rimaste invariate nel tempo. "O beneritto", il benedetto, così ancora oggi è chiamato nelle campagne sorrentine l’agnello fatto a zuppa con cipolle, al quale si aggiungono uova sbattute, il pepe, e molto caciocavallo a pasta dura ben stagionato e grattugiato ed alla fine si benedice la pietanza lanciando nella pentola qualche foglia di sacro alloro.

Una componente importante della tradizione della regione anch’essa tramandata dai romani è rappresentata dal pesce. Per i latini infatti esso costituiva un alimento pregiato.

Dal pesce ricavavano una famosa salsa con la quale i nostri avi usavano condire un gran numero di pietanze: il garum. Essa si otteneva dalla macerazione di sgombri, acciughe, tonnetti che venivano adagiati su un letto di erbe in fondo ad un recipiente quasi sempre di terracotta dove si alternavano a strati di erbe strati di pesce coprendo poi il tutto con molto sale. Il recipiente era collocato al sole per qualche mese ed il contenuto veniva rimescolato ad intervalli e poi ricoperto con un coperchio di legno.

Le erbe usate erano il finocchio, il sedano, la ruta, la menta, l’origano alle quali spesso venivano aggiunte dosi di vino bianco. Il garum più apprezzato era quello che si fabbricava a Pompei e quello che veniva dalla Spagna ed erano di uso molto comune tant’è che i cuochi romani lo mettevano dappertutto dalle uova alla carne.

Questa salsa verrà usata nella nostra regione fino a quando sarà superata per qualità, fragranza e profumo nonché per semplicità di produzione dalla invenzione della colatura d’alici avvenuta probabilmente intorno alla seconda metà del tredicesimo secolo ad opera dei monaci cistercensi abitatori dell’antica canonica di S. Pietro a Tuczolo, situata sull’omonimo colle della città di Amalfi che divulgarono tra i conventi e monasteri della zona la tecnica di produzione. Fu utilizzata in particolar modo per condire verdure cotte o crude con l’aggiunta di aglio olio e peperoncino.

I birboni di grano duro con olive, capperi e colatura di alici Menaica (vedi ricetta)Successivamente la colatura d’alici è stata utilizzata per condire le linguine con l’aggiunta di pepe rosso e nero, olive, capperi, prezzemolo, aglio, olio, ed una spruzzatina di succo di limone mischiati tutti insieme a crudo un paio d’ore di versare il tutto sulla pasta appena scolata. Questa pietanza è diventata il piatto di magro della vigilia di Natale per molti abitanti delle zone costiere della regione.

Ancora un riferimento è da indicare a testimonianza del nostro convincimento che la tradizione gastronomica della regione Campania è romana. Ci riferiamo alla caponata pietanza molto nota nella nostra regione e che non è altro che la diretta discendente della zuppa di "custrum" un biscotto di pane d’orzo o farina integrale ammollato in acqua e condotto con acciughe, capperi, olive, alloro ed olio, mentre nella versione marinara è realizzata con brodo di pesce o di mitili. La caponata era il piatto forte pensato e servito dal "caupo" l’oste dell’affollata "caupona viaria" la strada delle osterie dove erano numerosi i ritrovi preferiti dagli amanti del rustico.

Famosissime erano le "cauponate" (le osterie) dei vicoli del rione Pizzofalcone a Napoli, frequentate con molta probabilità anche dai patrizi che abitavano le ville romane della costiera amalfitana, sorrentina e di Capri in occasione delle loro frequenti puntate a Napoli, dove si recavano per i bagni minerali e le terme medicamentose.

Poi d’incanto al centro della scodella con la zuppa di custrum compare la treccia e la caponata diventa sorrentina.