Virtual Sorrento Home Page
- Sorrento nella Poesia -

Torquato Tasso e Sorrento

di
 
Torquato Tasso

Troppo universalmente nota la sua bio-bibliografia, perché ancora se ne debba far cenno. Ci limiteremo perciò al tentativo, per quanto ingenuo o addirittura avventato, di fare un po' di chiarezza sul possibile nesso, che non pochi considerano reale e profondo, tra la gande lirica tassiana e la realtà storica, culturale e spirituale della terra che ebbe il privilegio unico di dargli i natali.

La casa natale di Torquato Tasso.

Nel 1556, l'anno della morte della madre che segnò l'animo del poeta dodicenne di un dolore profondo e indelebile, il Tasso è a Bergamo, ma dopo qualche mese raggiunge il padre alla corte di Urbino, dalla quale nel 1559 ripartirà per Venezia, dove il padre si era recato per pubblicare le sue opere. Nel 1558 dunque, il Tasso è ad Urbino, dedito agli studi delle lettere, della musica, delle arti, ed al culto delle virtù cavalleresche, che dovevano fare di lui il perfetto cortigiano, sul modello stabilito dal Castiglione.

E ad Urbino, dove avviene l'esordio lirico del "Tassino" (come veniva chiamato per distinguerlo dal padre), lo avrà raggiunto certamente la drammatica notizia del terribile saccheggio del 13 giugno 1558, che Massa e Sorrento subirono da parte dei Saraceni.

L'orrendo scempio che gli 'infedeli' avevano inflitto alla sua amata città natale, certamente dovette sconvolgere l'animo del poeta quattordicenne, che già l'anno seguente, a Venezia, scriveva il Libro I del Gierusalemme, progetto subito abbandonato per dedicarsi al Rinaldo.

Negli anni successivi riprenderà il suo peregrinare e i suoi studi tra Padova, Mantova, Bologna, fino al suo approdo a Ferrara dove fu al servizio del Cardinale Luigi d'Este e poi tra i cortigiani stipendiati del Duca Alfonso (1571).

Dopo la morte del padre (1569), il Tasso, già reso famoso dal Rinaldo e dall'Aminta, realizzati nel periodo più fruttuoso e sereno e nel pieno fervore del suo genio creativo, aveva posto mano alla 'Liberata' che, nel 1575, vede la luce col titolo Il Goffredo.

Ed è a questo punto che la sua luminosa parabola umana ed artistica, raggiunto il suo culmine, comincia rapidamente a declinare, precipitandolo in quello stato di profonda depressione, comunemente definito 'follia'.

Del confuso e travagliato periodo, che va da questo momento al suo internamento nell'Ospedale di S.Anna, di tutte le nuove affannose peregrinazioni del poeta, a noi interessa soprattutto quel suo avventuroso ritorno a Sorrento (1577), dove soggiornò per sei mesi presso la sorella Cornelia.

Ci sembra ora giunto il momento di tornare sul tema iniziale e, alla luce della cronologia appena abbozzata, di chiederci quale effettivo rapporto, semmai ce ne fu uno, possa essere intercorso tra la terra sorrentina e la grande poesia tassiana.

Si può ancora sostenere, come qualcuno si ostina a fare, che la profonda e dolorosa impressione, riportata dalla notizia dell'assedio dei Turchi a Sorrento, possa aver ispirato al poeta il grandioso affresco epico che nelle tappe successive del 'Gierusalemme', del 'Goffredo', ed infine della 'Liberata', sembra voglia affermare la rivincita dell'Occidente Cristiano sull'Islam aggressivo e infedele? Semmai qualche nesso vi fu, non può essere stato che del tutto secondario e quasi impercettibile, dal momento che sappiamo bene da quale smisurata ambizione era veramente scaturita l'idea del poema.

L'opera, infatti, a ben guardare, si inserisce pefettamente in quello che sarà il grandioso progetto barocco di celebrare ed esaltare la grandezza non tanto della Civiltà Cristiana, quanto della Chiesa di Roma, dopo le profonde lacerazioni, tuttora vive, degli scismi che l'avevano dilaniata.

Essa dunque è figlia di quella Controriforma, di cui lo stesso poeta fu la prima, illustre e inconsapevole vittima, tanto è vero che proprio nella composizione del capolavoro e nel conseguente uragano di scrupoli, dubbi e ripensamenti, che travolsero l'autore, malignamente fomentati dai suoi gelosi avversari, vanno ricercate le prime radici del suo squilibrio mentale.

Al quale, d'altra parte, non è estranea la stessa violenza che il Tasso faceva a se stesso, ostinandosi a voler dare un'enfasi epica e un impeto guerriero alla sua indole delicata e fragile, sospirosa ed elegiaca, intensamente sensuale e perciò fatta più per i languidi abbandoni d'amore che per cantare le armi.

Da qui quella vaga impressione di ambiguità, di una mancata intima fusione tra storia e leggenda, realtà e fantasia, insomma tra la vita ed il sogno, quale era felicemente avvenuta nell'Orlando Furioso dell'Ariosto.

E tutto questo è provato dalle frequenti rivincite della sua natura idilliaca che a tratti traspare in episodi, come quello di Erminia tra i pastori, degli orti incantati di Armida, degli amori disperati e struggenti dei suoi amanti infelici.

Si è detto che l'incanto di queste pagine non è che il riflesso di quello, ormai quasi scomparso, che si poteva cogliere nella natura incontaminata e ridente, nei giardini e nei boschi, nei profumati agrumeti di Sorrento, come se tutto questo gli fosse rimasto dentro, quasi un 'paese dell'anima'.

E si dimentica che un bambino, strappato alla terra natìa ad appena un anno di vita e tornatovi quando ormai era tardi e la sua opera in gran parte compiuta, di questa sua terra d'origine non può avere avuto neppure il più pallido ricordo.

"Vezzosi augelli infra le verdi fronde
Temprano a prova lascivette note,
Mormora l'aura...

Pendono a un ramo, un con dorata spoglia,
L'altro con verde, il novo e il pomo antico.
....

Co' fiori eterni eterno il frutto dura,
e mentre spunta l'un l'altro matura"

T. Tasso - Gerusalemme Liberata - Canto XVI

Versi come questi, scolpiti su un marmo all'ingresso di quella che fu la 'Domus Artis' di Saltovar, possono anche dare l'idea dell'eterno miracolo della natura e del magico splendore di un giardino fatato, ma proprio per questo vanno collocati più giustamente in quel culto della natura che, iniziato col Petrarca, toccò il suo vertice nella 'plenitudo temporum' (la pienezza dei tempi) dell'età umanistica e rinascimentale.

Analogamente il distico:

"Oh fortunati peregrin, cui lice
Giungere in questa sede alma e felice"

un tempo posto sull'ennesima lapide in località Marano, ora scomparsa, non è che il saluto rivolto a Carlo ed Ubaldo, giunti al palazzo di Armida, e non certo il benvenuto del Tasso a chi arriva a Sorrento.

Alla luce di queste scarne e veloci considerazioni, una sola conclusione ci sembra lecita e giusta. Torquato Tasso, nella sua complessa personalità, per tanti aspetti ancora oscura, fu e resta il poeta tragico che subì il lungo martirio di un irrisolto conflitto interiore tra due nature, o se si vuole, due anime opposte: quella pia e moralista, oppressa dalla religiosità formale imposta rigorosamente dalla Chiesa della Controriforma e quella umanistica e neopagana incline per natura alla festa dei sensi, ai trattenimenti d'amore, a quella libertà di costumi e di vita, che era stata la più grande conquista del nostro Rinascimento.

Ed è in questa seconda e più autentica accezione, che può essere agevolmente riconosciuta la sua identità sorrentina, la sua derivazione da una terra che, sotto le incrostazioni depositatevi da due millenni di Cristianesimo, resta tuttora tenacemente ancorata ad una concezione essenzialmente paganeggiante del mondo, facilmente riscontrabile nell'esuberante vitalismo della sua gente, nell'esplosione gioiosa delle passioni, nei ritmi vorticosi delle sue tarantelle, nell'abbadono ad uno spensierato edonismo.

E tutto questo proprio in ossequio a quella norma "aurea e felice" che lo stesso Torquato aveva scolpito nell'Aminta:

" S'ei piace, ei lice"

Non per nulla il dramma pastorale di Aminta, con quel trionfo finale dell'amore, sullo sfondo di un paesaggio agreste che appare come idealizzato e fissato per sempre nella luce rarefatta di una visione, fu salutato ed accolto come un vero prodigio di poesia, uno degli ultimi, se non l'ultimo capolavoro di quel secolo d'oro che si avviava al tramonto. E ciò fu dovuto anche al fatto che rappresenta l'unico caso, con quello di Olindo e Sofronia, di una raggiunta felicità, tra i tanti amori strazianti e straziati che furono del poeta prima ancora che dei suoi personaggi.

D'altra parte, la vera grandezza di quanti passano alla storia come i giganti della letteratura, sta nella universalità dei temi trattati, nella perenne attualità delle emozioni e dei sentimenti, nella loro capacità di valicare i confini geografici di un luogo, sia pure quello natìo, per spaziare nei cieli infiniti dell'anima.

Esattamente come avverrà con il Leopardi, i cui canti infrangono i pur sempre angusti limiti del paesaggio marchigiano e della sua Recanati, per librarsi nei silenzi del cosmo, negli spazi siderali ed infine naufragare in quel 'nulla eterno' dove solo avrà pace il nostro indecifrato dolore.

A questo punto sembra proprio non avere più senso il domandarci quanto del paesaggio sorrentino sia filtrato nella lirica del Tasso o di quello recanatese nei 'Canti' del Leopardi, dal momento che entrambi sono stati i poeti di una natura vista, al di là dei ruscelli e dei prati, nella sua 'globalità', nei suoi orrori e nella sua vertiginosa bellezza, nella sua maestà e nel mistero delle sue leggi, che presiedono il perenne avvicendarsi della vita e della morte.

 

Copyright © 2003 Salvatore Cangiani. Tutti i diritti riservati.